HO SCELTO PER VOI DUE PAGINE SCARSE, A UN TERZO DALL’INIZIO. PARLANO DI AMORE. DI AMORE PASSIONE. PARLANO DI COME CI SI DÀ A UN ALTRO NONOSTANTE CHE L’ALTRO CI FACCIA DEL MALE. MENTRE LE SCRIVEVO, SENTIVO IL CUORE ACCARTOCCIARSI PERCHÉ L’AMORE È AMORE,NON C’ENTRA SE CHI SI AMA HA O NO UN SESSO DIVERSO. AMARE È UNA ESPERIENZA COSÌ POTENTE CHE NON RIUSCIAMO A GOVERNARLA. MA È L’AMORE CHE PRENDE POSSESSO DI NOI. NOI NON POSSIAMO SCEGLIERE CHI AMARE. È L’AMORE CHE CI SCEGLIE.

PRIMO ESTRATTO | da pag. 121 a pag. 124 »

“Una notte Michele si ubriacò. Gli tornò a casa alle quattro di notte, abbracciato a un suo amico con la faccia spaesata che si era attaccato al campanello sulla strada per farsi aprire. Il custode era uscito dal suo appartamento con un cappotto buttato alla bell’e meglio sopra il pigiama e poi era salito a piedi con loro, tenendosi a debita distanza, per dire al Professore che va bene la pazienza e tutto, saranno anche giovani, ma il fatto non si doveva ripetere. Ernesto si era preso tra le braccia il peso di morto di Michele, l’amico era evaporato. Si portò in camera il suo amore con le gambe penzoloni, il collo moscio, lo depose sul letto e cominciò a spogliarlo. La cintura dei blue jeans. La cerniera. Le gambe sgusciate dai pantaloni. I calzini. Le scarpe. La giacca nera. La maglia. Lo scostò appena, con una infinita delicatezza, per sollevare il margine del lenzuolo, gli avvicinò le gambe, sistemò le braccia lungo il corpo, lo coprì. La testa era piegata sul cuscino, senza volontà.
Si chinò sopra di lui, gli baciò la fronte.
Una domenica andarono al mare, a Fregene. La scusa era andare a mangiare il pesce da Antonio ma era il mare che serviva. Serviva il suo orizzonte lungo, lo sperdimento della spiaggia vuota, abitata di detriti morti, e di gabbiani. Serviva la fatica di attraversare la spiaggia con le scarpe ai piedi. Serviva la confusione delle famiglie, il vociare, i tumuli di spaghetti ai frutti di mare portati in giro come scalpi tra i tavoli dai camerieri con il braccio alzato. Si immersero nel caos del ristorante.
Erano quasi le tre, e sui tavoli c’erano le spoglie del pranzo, piatti sporchi, pane mangiucchiato, bucce di mela, d’arancia. Gli venne addosso una lama di tristezza. Michele le scarpe se l’era tolte subito, appena scesi dal taxi, aveva camminato sul cemento e poi sulla spiaggia, senza preoccuparsene e nemmeno se le era rimesse per entrare dentro il ristorante, Ernesto aveva tenuto il cappotto.
“Non te lo levi?”
“No.”
Ordinarono spaghetti alle vongole.
“Nei mesi con la erre non andrebbero mangiati” scappò detto a Ernesto.
“Ah sì?” disse Michele privo di qualunque interesse. Guardava fuori dal vetro della veranda la linea cattiva del mare.
Ernesto fu preso da un fiotto di angoscia, la paura di perdere quello che aveva lo invase come una marea e, sotto, sentiva che c’era altro, c’era il vero terrore, c’era la domanda segreta e terribile che evitava di porsi da molto, molto tempo. “È bella questa giornata” sussurrò e si vide allungare la mano sul tavolo, cercare le dita di lui.
Michele continuava a guardare l’aria vuota, non disse niente. Ma ritrasse la mano.
Allora Ernesto chiuse bruscamente le dita, e si dette ad aggiustare la tovaglia, lisciava le pieghe, rimise al suo posto, alla destra del piatto, il bicchiere, uno solo, che il cameriere aveva messo dove deve stare il pane. Michele si risvegliò di colpo dalla sua assenza. “Il mio sta bene qui” disse coprendo il suo bicchiere con la bella mano.
“Scusami caro.”
Lo vide sbuffare, girarsi di nuovo verso il vetro che dava sul mare. Fece uno schiocco con la bocca, un suono che Ernesto sapeva i ragazzi usavano per dire “Forte!”. Ne fu lusingato. Fu per questo che la botta, quando arrivò, gli fece più male.
“Che si fa?” Il ragazzo picchiettava sul vetro, senza guardarlo in faccia.
“Eh?”
“Io mi sto rompendo.”
Depone queste parole come uova, una dopo l’altra e il guscio subito si spacca, le serpi escono velocissime, nere.
Un cameriere benedetto arrivò con gli spaghetti.
Mangiarono.
Al ritorno, sul taxi, Michele si addormentò. Teneva la testa appoggiata alla spalla, contro il finestrino. Ma poi ci fu una scossa, ebbe come un ripensamento e si girò dalla parte di Ernesto, gli mise la testa in grembo. Le altre macchine li superavano, il tassista era anziano, la macchina vecchia. Si era levata una pioggia sottile, la strada e i campi rilucevano come un cristallo. Ernesto sperò di non arrivare mai.”

LOLA HA SEDICI ANNI, È POVERISSIMA, IGNORANTE, VIENE DA UN PAESINO SPERDUTO DELLA CALABRIA, HA LA TESTA “PICCOLA”,COME DICE LEI, È IMMIGRATA CLANDESTINA A NEW YORK. MA HA UN DONO: SA VEDERE COL IL CUORE. E NON SI SBAGLIA. HO SCELTO PER VOI DUE PAGINE ALL’INIZIO DELLA STORIA. LOLA LAVA I PAVIMENTI IN UN OSPEDALE DI LUSSO. MENTRE È CHINATA IN GINOCCHIO A PULIRE, LE CADE ADDOSSO… UN NEONATO! ERNESTO CE L’HA IN BRACCIO, È IL BAMBINO È APPENA NATO, LUI È OMOSESSUALE E HA COMMISSIONATO QUESTO BAMBINO A UNA MADRE IN AFFITTO MESSICANA. MA C’È QUALCOSA CHE NON VA COME PREVISTO.

SECONDO ESTRATTO | da pag. 62 a pag. 65 »

“Signore! Signore!” urlo.
Lui si gira.
“Che altro c’è ancora?” fa e ci ha la voce molto stanca.
Io mi stringo nelle spalle, schiocco le labbra.
“Signore!” dico. “Si è dimenticato il suo bambino!”
Il bambinello mi dorme in braccio buono buono. Non si accorge di nulla. Dorme e fa boccacce. Su’ padre andava via e lui niente.
Su’ padre torna indietro, ma mica corre come uno che va dal suo bambino. No, cammina piano, ci ha le braccia all’ingiù, pare che lo spingono con l’aratru.
Viene in faccia a noi. Allunga le braccia, zitto. Mi dispiace un sacco darglielo, ma è il suo bambino. E succede una cosa bellissima. Il bambinello di botta fa una puzzetta ricca, a scrusciu, paro paro un grande al gabinetto e lui torce il naso. Se lo piglia, ma rivolta la testa tutto schifato. “Lo lavo?” faccio io piena di speranza. Non ce la faccio a vederli andar via.
Lui fa le spallucce. È un papà strano. Ma la merda è merda. E eccoci nel bagno dei visitatori, il bambinello e io. Fortuna vado alla nursery con tutte le scuse a guardare dal vetro cosa fanno le infermiere. Lo tengo come un pollo e gli sciacquetto il culetto sotto l’acqua. Fa effetto. Ci ha un culetto pieno di rughe, un po’ sgonfio, mi sta tutto intero nella mano. Pensare che poi diventa un uomo… Il mondo è proprio bello. Nostro Signore ci ha fatto benissimo. Ora il bambinello fa Nghe Nghe, gli piace il pulito come a tutti… e non ci ho il pannolino da cambiarlo.
Che faccio, mamma? Metterlo nudo dentro alla coperta pisciosa mi stringe il cuore. Ci ho da trovare il pannolino. Mi batto un colpo in fronte: la nursery! Ci sono montagne di pannolini nella nursery. Ma il piccolino lo devo nascondere. Mi levo la divisa e sotto ci ho la maglia e mi levo la maglia e ce lo avvoltolo che non piglia il freddo e lui Nghe Nghe, mi sa che si diverte delle novità. Lo piazzo sotto il lavandino, bene in fondo, mi rimetto la divisa e esco.
Ci metto un niente a correre nella nursery, spalanco la porta e per fortuna c’è Emily, “Ciao Lola!” fa, e poi mi guarda meglio e fa la faccia che non capisce.
“Che hai fatto alla divisa?”
“Gelato!” dico io. Ma è cacca.
Lei fa Boh con la bocca. Puzzo un po’, penso.
“Cosa posso fare per te?” dice Emily.
Emily è fortissima. È della Giamaica, è abbastanza grassa, ci ha delle bellissime collane, se le toglie per il lavoro perché i dottori non vogliono. Ma pare che ce le ha sempre perché dondola e tintinna e cammina nei corridoi come una nave e ci stanno attaccati i bambini.
“Posso avere un pannolino?”
“Perché?” fa lei.
“Mi serve.”
Emily mi guarda bene e dice: “Hai le tue cose?”.
Sì, ecco: le mie cose!
“Sì sì” faccio io tutta contenta.
“Ti fa male la pancia?” dice lei.
“No, sì, no…”
“Sì o no?”
Ci penso un po’ e poi dico: “No, mi serve solo il pannolino”.
Emily si alza dalla sedia della stanza infermiere, va nello sgabuzzino, sento sbattere gli sportelli e poi eccola che torna con in mano due pannolini! Emily sei grande!
“Grazie grazie grazie” faccio io e quasi glieli strappo di mano e poi giù a rompicollo per le scale della sicurezza che ci scivoli come nulla, ma non scivolo e eccomi nel bagno dei visitatori che tanto non ci va mai nessuno e se il bambinello non c’è che faccio, mamma?
Ma lui c’è tutto beato, dorme sotto il lavandino, la mia maglietta gli piace un sacco, mi sa.
Lo tiro fuori, lui si secca molto, mi dà delle manatine a dita aperte e strilla come un animalino, il pannolino non lo vuole per niente, si agita tutto, si scuote, sguscia, mi dà dei calcetti che non fanno nulla, stai buono, bambino, dài fidati, si sta bene puliti. Alla fine glielo metto, il pannolino, lo riavvoltolo nella sua coperta pisciosa e torno fuori.
Occhitristi è fermo nel posto dove l’ho lasciato, tiene le mani in tasca e guarda il muro.
“Ah, avete fatto?” dice. Ma non gli importa granché, si capisce.
È un papà molto strano.
“Beh, sì” dico io. “Eccolo qui, tutto pulito!”
Lui tiene le mani in tasca.
“Eccolo, signore” dico io, “il suo bambino, signore.”
Lui sta muto poi piega un po’ la testa e fa un cenno per dire Ah sì quasi me ne dimenticavo.
Mi sa che ci ha la testa piccola anche lui.
Lo ripiglia, lo mette sotto l’impermeabile e va via.
“Signore! Signore!” faccio io.
Lui si gira, molto seccato. Ma io ci ho il dubbio e ci ho da domandare.
“Scusi, va bene alle cinque?”
Fa un cenno di sì, ma la testa gli pesa così tanto che resta all’ingiù e a vederlo da dietro pare una schiena che cammina.”

COSA SUCCEDE QUANDO DUE MODI OPPOSTI DI VIVERE LA VITA SI SCONTRANO? LOLA È UN CUORE SEMPLICE. ERNESTO È UN UOMO COMPLICATO.
LORA È ALLEGRA DI NATURA.ERNESTO È MANGIATO DALLA ANGOSCIA. MI SONO CHIESTA SE ,PER GENTE COME ERNESTO, C’È UNA SPERANZA. SE SI PUÒ BUTTARE VIA LA MASCHERA DIETRO CUI CI DIFENDIAMO. IL PEZZO CHE HO SCELTO PER VOI DICE DI SÌ. E INSEGNA COME FARE.

TERZO ESTRATTO | da pag. 208 a pag. 209 »

La ragazzetta gli capitava sempre intorno e aveva sempre in braccio il bambino. Quando uscivano, per la passeggiata del pomeriggio, bussava alla porta dello studio e glielo mostrava mentre faceva Ciao Ciao come una scimmia. Quando tornavano, strillava dall’ingresso Siamo a casa! Nello studio, lui si metteva le mani sulle orecchie. Ma non c’era nulla da fare, la ragazzetta era dappertutto.
Le scopriva nello sguardo strane morbidezze, un umido come di bosco. Poi scuoteva la testa e se ne dimenticava. Ma era un fatto, lei era sempre sorridente, piena di uno stupore che, in un’altra situazione, sarebbe stato incantevole. La sorprendeva davanti alla quadreria, con le labbra socchiuse e il dito sollevato a disegnare qualcosa nell’aria, e una volta, preso da un impulso che non seppe dominare, le chiese cosa disegnasse. Lei si illuminò tutta e disse tutto d’un fiato che si immaginava la dama, il cavaliere, il vescovo, il santo uscire dal dipinto scrollandosi di dosso la polvere e scendere giù in salotto a salutarla.
“Lo fa anche lei, Professore?” Lo guardava rapita.
“No.”
Lo guardava con un faccino di lepre. “Perché no?”
Si strinse nelle spalle, di colpo il gioco lo annoiava a morte. Ma lei non gli lasciò scampo.
Indicava col dito un dipinto campestre, alla maniera di Watteau. Raffigurava una nobildonna seduta su una panchina, avvolta di crinoline e di pizzi. Due marmocchi vestiti di velluto azzurro giocavano ai suoi piedi con un cerchio di legno.
“Bello, eh?”
Annuì. Lei prese coraggio. “La signora” e si rivolse al quadro come se fosse vivo “si annuia… si annoia un pochino. Allora io la faccio scendere, lei fa un giretto e dopo torna.”
Suo malgrado, era affascinato. E i suoi tentativi di correggersi per parlare un italiano decente lo intenerivano. La ragazzetta se ne accorse.
“E lei?”
“Io che?”
“Lei, Professore…” Gli piantò in faccia due occhi di selce. “Lei…”
“Parla.”
La ragazzetta spinse il mento in avanti e senza prender fiato: “… ci ha mai vogghia… voglia, scusi, di uscire dal quadro?”.
“Ma che dici? Quale quadro?”
Eppure, mentre lo diceva, si accorgeva che la ragazzetta aveva ragione. Sì, lui era immobile e muto, rinchiuso dentro la cornice della sua vita allo stesso modo dei cavalieri e delle dame e dei santi che lo guardavano dalle pareti. Era prigioniero e se l’era costruita da solo, la sua prigione. Ma non era capace di uscirne. Cercò il fazzoletto nella tasca della giacca da camera e se lo mise sul naso, fingendo di soffiarselo. La ragazzetta non era stupida come sembrava. L’aveva preso in castagna.”

“I baci di una notte”

Antonella Boralevi racconta il suo nuovo romanzo

VOI MI INTERESSATE MOLTO. NON SOLO PERCHÉ, GRAZIE A VOI, IO POSSO FARE QUELLO CHE MI FA STARE BENE, CIOÈ INVENTARE STORIE. MI INTERESSA CONOSCERVI. E MI INTERESSA CHE VOI MI CONOSCIATE. PER QUESTO, HO SCRITTO ALLA FINE DI “UNA VITA IN PIù” DUE PAGINE DEDICATE SOLO E ESCLUSIVAMENTE A VOI. PENSAVO DI RINGRAZIARVI E BASTA. UN ROMANZIERE DEVE TUTTO AI SUOI LETTORI: SIETE VOI CHE PARLANDONE E CONSIGLIANDOLO, FATE IL SUCCESSO DI UN ROMANZO. PERSINO SE NE DITE MALE, FATE DEL BENE AL ROMANZO. MA, MENTRE VI SCRIVEVO, È SUCCESSA UNA COSA STRANISSIMA. VOI, PROPRIO VOI, AVETE SCOPERTO UN SEGRETO CHE MI RIGUARDA.
IO NON LO SAPEVO, MA SIETE VOI CHE MI AVETE FATTO TROVARE DA DOVE VIENE LA MIA ISPIRAZIONE.
GRAZIE DUE VOLTE.